mercoledì 24 settembre 2008

La "questione islamica"

In occasione di un congresso su religione e libertà, il Patriarca di Venezia ha sottolineato come la nostra società si sia “culturalmente meticciata”: viviamo in un’Italia che è diventata in troppo poco tempo, e forse in modo troppo poco ragionato, multietnica. Con questa realtà talvolta problematica, ma comunque oggettiva, occorre fare i conti.

È di fatto inopportuno analizzare queste nuove dinamiche, senza prima aver ribadito fermamente e precisamente alcuni concetti che stanno alla base del vivere civile.
Poiché solo facendo riferimento a questo si può affrontare, in maniera lineare, la “ questione islamica” scoppiata in questi giorni a Treviso.

In Occidente, in Europa ed in Italia, esiste nei fatti, ed è acquisito dai comportamenti, una netta separazione tra religione e stato. Cioè fra tradizione religiosa e comportamento sociale.
Questo è scritto nelle nostre leggi e, anche se talvolta da una parte e dall’altra si verificano ingerenze e incursioni fuori dai propri confini, esiste un sostanziale equilibrio nella divisione di “ruoli”.
Così non è nella cultura Islamica.

Oggi un prete Italiano non farebbe mai politica dal pulpito e, se lo facesse, sarebbe ammonito sia dai fedeli che dalle cariche ecclesiastiche.
All’interno di una moschea questo è normale poiché, in quella cultura, non si è ancora giunti alla scissione laica che sta alla base del rapporto stato-chiesa proprio dell’Occidente.

Al contrario, è sociologicamente e storicamente dimostrato che proprio dalle moschee sono partite molte iniziative politiche spesso sfociate in violenza come le ultime due intifada in Palestina.

In Italia oggi pertanto, non si pone il problema se i credenti Islamici abbiano titolo a pregare, quanto piuttosto in che modo questa preghiera possa svolgersi nel rispetto della cultura, delle regole e delle tradizioni del paese che li ospita.

Queste considerazioni non nascono da sentimento razzista bensì dalla richiesta di rispetto uguale a quello che si reclama.
In Arabia Saudita (il paese della Mecca e quindi dell’intransigenza coranica) vivono due milioni di cristiani senza alcun diritto di espressione religiosa.

Per questo stupisce il comportamento di quei giovani di “seconda generazione“ che sono nati in Italia - hanno frequentato le nostre scuole e parlano bene non solo l’Italiano ma spesso anche il Veneto - ma si fanno interpreti di posizioni che poco o nulla hanno a che fare con questa loro, supposta, integrazione.
Perché, se è comprensibile che rivendichino il diritto a pregare, non è accettabile che lo facciano attraverso la forzatura di trasformare un parcheggio in luogo di culto. O che si spingano fino all’implicita minaccia di ricatto che la venuta a Treviso della televisione Al-jazeera, contiene.
Saranno anche di seconda generazione ma, ancorché nati qui, certo non sono, né si sentono, cittadini italiani nel momento in cui rifiutano la cultura corrente che è fatta di regole e tradizioni. Non sono inseriti in quel “sentire comune” o “ cultura guida” che distingue un popolo dall’altro.
Pare quindi che, in fondo, non amino l’Italia, non vi si siano integrati, non siano coinvolti nella cultura guida che ci caratterizza. Continuino infatti a rivendicare prerogative che sarebbero solo “diritti di separatezza”.

A malincuore occorre dir loro che, senza l’accettazione delle regole e del sistema di vita del posto, cioè senza integrazione, non c’è spazio per il dialogo. Questo lo dico con sincera amarezza poiché sono fermamente convinto che solo il dialogo possa consentire il confronto e la comprensione necessari superare la separatezza della multietnicità.

I giovani di “seconda generazione“ che vivono con consapevolezza questo territorio e la gente che vi ci abita, sono chiamati a prendere una decisione fondamentale: vogliono accontentarsi di “vivere accanto” agli italiani o al contrario di “dialogare con gli italiani“ cioè di portare a compimento il reale processo d’integrazione?

Nel primo caso avranno scelto la multiculturalità del ghetto, cioè il modello che l’America da sempre e la Francia delle banlieue recentemente hanno imposto, con tutte le sue conseguenze, su tutte i tempi lunghi dell’integrazione e il rischio delle improvvise fiammate di violenza. Un modello rivelatosi non utile né auspicabile ma pericolosamente dietro l’angolo, soprattutto in virtù dei comportamenti fin qui tenuti.

Agli antipodi c’è il dialogo. Scelta auspicabile ma finora non riscontrata.
Occorre ricordare che dialogo significa rispetto per la cultura prevalente (cultura guida) del paese; rispetto per le regole e loro applicazione; rispetto per i costumi e le tradizioni che guidano i sentimenti ed i comportamenti del luogo che ospita.
Dialogo significa affermazione delle proprie specificità, ma all’interno di un modello pre-esistente. Quindi, dialogo, significa pazienza ed adattamento.
E, a prescindere, occorre un’attestazione di rispetto e condivisione per i principi guida che regolano la vita civile occidentale: la separazione tra religione e politica, la parità di diritti tra maschi e femmine, il rispetto della donna, lo stesso diritto all’istruzione indipendentemente dal sesso, la monogamia, sono elementi di vivere civile imprescindibili e immodificabili.

Sapendo cioè, come scrive Raimond Panicar “…che il dialogo è possibile per chi ha radici profonde e riconosce nell’altro la capacità di portare verità.”


Renato Salvadori